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L’Aura 2.0: l’arte nell’epoca della sua riproducibilità digitale

Valentina Zambon
Valentina Zambon
aprile 2021 - 3 minuti

La perdita dell’aura

Nel 1936 Walter Benjamin, filosofo e scrittore tedesco, scrive L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Un saggio in cui sostiene che la riproducibilità meccanica e massiva delle opere, resa possibile dalle nuove tecnologie, comporterebbe la perdita della loro unicità e di quell’alone sacro, definito aura, che le avvolge. Del resto, l’abuso annichilisce le immagini e rischia di portarle a noia. Oggi siamo circondati dalle repliche d’arte: canzoni da Spotify, serie tv su piattaforme come Netflix o Amazon Prime, videoclip e fotografie che invadono le feed di Instagram, Facebook e Tik Tok. Benjamin non poteva immaginare come e quanto la futura dimensione digitale avrebbe cambiato la riproduzione e la percezione dei contenuti. Oggi tutto può essere prodotto e ri-prodotto con una facilità disarmante.

Accessibilità

Se nel mondo analogico c’era ancora un rapporto di sudditanza tra l’originale e le sue copie, nella dimensione digitale questo non esiste più. I contenuti digitali sono infatti per propria natura replicabili in forme sempre identiche: sappiamo tutti qual è l’originale de Il Bacio di Klimt, mentre chiedersi quale sia l’originale si un mp3 non ha più senso. Unicità e autenticità sono sostituite da esponibilità e accessibilità, punti di forza di tutti i servizi digitali globali.

Frammentazione

Non solo riproducibilità. I contenuti che circolano online sono suddivisi in pacchetti. Questa frammentazione ha determinato la modalità di fruizione e distribuzione dominante sul web: il flusso. Concetto che conosciamo bene grazie ai social media, dove tante piccoli tasselli si attivano quando scorriamo il dito sullo schermo in una modalità infinita. Ma cosa significa tutto questo per il modo in cui fruiamo le opere d’arte oggi, e per l’opera d’arte stessa?

Artisti = utenti

Con la digitalizzazione gli artisti sono diventati utenti, e le loro opere sono i tasselli su cui scorriamo il dito nelle bacheche social. Su Instagram le mie foto scattate con lo smartphone al tramonto possono apparire accanto alle foto di Steve McCurry: tutti i contenuti appaiono uno dopo l’altro senza un criterio preciso. Ci sono gli algoritmi e i like che influiscono sulla visibilità, ma alla fine l’artista deve confrontarsi in un’arena dove tutti sono concorrenti di tutti.

Il mito dell’arte

Oggi le persone vanno al Louvre per vedere l’originale della Gioconda, conosciuta fino a quel momento solo per mezzo di riproduzioni su poster, immagini sui libri, foto sul web, tazze o segnalibri. In molti si scattano dei selfie come se avessero appena visto un vip. Il fascino dell’opera d’arte non sta più nei meriti della pittura, ma nel trovarsi di fronte all’originale di qualcosa conosciuto tramite copie, o tramite l’influencer di turno. Se è vero che il vedere i dipinti riprodotti ovunque ha fatto perdere loro un po’ di quell’aura descritta da Benjamin, è altrettanto vero che ha creato il mito dell’arte.

Una nuova aura

Le direttive tecnologiche stanno senza dubbio indirizzando e cambiando la produzione artistica, ma in fin dei conti questo è sempre avvenuto. Ciò che è realmente rivoluzionario rispetto alle precedenti epoche storiche è la libertà di scelta e di interazione nettamente maggiore. L’aura delle opere d’arte non è sparita. Si sta riadattando a quelle che sono le attuali condizioni di spazio e di tempo: possiamo chiamarla “aura 2.0”. «Una cosa è sicura: proprio grazie alla tecnica le immagini non sono più cose che si ammirano, ma più spesso cose che si usano» R. Falcinelli, Figure